Gruppo di lettura. Libri in bottèga. Recensione 34/133: "Sangue marcio" di Antonio Manzini

Ogni tanto la notte pensavo a me. A dov'ero. E se era il caso che papà e mia madre mi avessero concepito quindici anni prima. Avevo la vita. Solo quella. E nessuno che mi insegnasse come viverla.

Antonio Manzini
Sangue Marcio
Edizione cartacea, pag.189
Valutazione ⭐⭐⭐⭐/5

L'autore del mese di novembre per il gruppo di lettura Libro in Bottèga  è Antonio Manzini creatore del vice questore Rocco Schiavone protagonista di almeno 12 titoli su carta e di una serie TV rinomata. Quando ho scelto tra i suoi titoli, però,  ho puntato sulla prima storia  da lui scritta che non ha nulla a che vedere con la serie, incuriosita dal titolo e dalla trama. 
 


Pietro e Massimo sono fratelli, la loro infanzia è dorata. Figli di un imprenditore hanno tutto quello che si può desiderare e anche di più: Ero un bambino ricco dice Pietro durante la sua narrazione. Questo fino al 12 ottobre 1976 quando la polizia suona alla loro porta con un mandato di arresto per il padre, il mostro delle cinque terre. Qualcosa di indicibile è accaduto in quella villetta al mare in Liguria dove Pietro e Massimo vanno solo d'estate e dove invece  il padre, con alcuni suoi amici, va spesso durante tutto l'anno.

Siamo nel 2002 Massimo e Pietro si sono ritrovati dopo tanti anni di lontananza perché dopo quel 12 ottobre gli eventi sono precipitati ed ognuno di loro  ha dovuto seguire una strada diversa.
Massimo è un commissario all'inseguimento di un omicida seriale che uccide le donne, tutte con lunghi capelli biondi, in modo brutale: cuce la vagina mentre, con le mani legate dietro la schiena, le donne muoiono soffocate con un sacchetto di plastica in testa. Pietro invece è un giornalista di cronaca nera. 
I due fratelli vivono nella stessa città e "collaborano" nella ricerca dell'assassino: Pietro è il primo ad avere accesso alle scene dei delitti, ha informazioni con cui  può interrogare, da giornalista, le persone coinvolte nelle uccisioni condividendo poi  le informazioni  con Massimo. Pietro non va alla ricerca dell'assassino per fare giustizia, non gli interessa diventare famoso, a lui interessa solo far diventare suo fratello un eroe perché Massimo se lo merita, loro se lo meritano dopo i lunghi silenzi ed il dolore condiviso anche se, aggiungo, il peso non è stato ripartito in parti uguali.
Gli anni trascorsi dall'arresto del padre al 2002 hanno cambiato profondamente entrambi invertendo i ruoli. Massimo che da bambino era il più forte e minacciava tutti con una frase Vatti a nascondere in Tibet è diventato un uomo disordinato, stanco, con un matrimonio in crisi. Pietro, il più piccolo,  è tutto l'opposto: freddo, lucido, organizzato, su di lui pesa quel Mostro delle cinque terre, i lunghi anni passati in un Istituto a Torino dove ha imparato a vivere la vita senza nessuno che gliela insegnasse.  Non ha amici, non ha una famiglia, ha solo Massimo.


Manzini ci racconta due storie l'una dentro l'altra, distanti nel tempo ma vicine il tutto in una manciata di pagine. 
Rimango sempre colpita dalla bravura di alcuni autori nel creare storie  come se fossero racconti brevi eppure pieni per la costruzione della trama, per l'intensità dei temi trattati, per come affonda nei personaggi. Manzini grazie ad una scrittura semplice, essenziale, capitoli brevi, periodi altrettanto brevi riesce a costruire un giallo nero, dove non manca nulla, dove il lettore  accanto alla ricerca dell'assassino viene trascinato nelle pieghe buie dell'anima umana quando questa  ha avuto come unica guida il male.
Noi andiamo in giro con l'orrore sulle spalle. Ma ci siamo abituati, non ci spaventa. Ne siamo parte, anzi spesso ci fa compagnia. Lo portiamo fuori a prendere una boccata d'aria e ogni tanto a fare una passeggiata. Sei tu, magari, che non sei abituato a vederlo. Ma è ovunque. Facci attenzione. 

Ogni capitolo inizia con una data dell'anno 2002 la narrazione è in terza persona poi, semplicemente aggiungendo un'interlinea per cambiare paragrafo,  siamo  nel passato, prima durante e dopo il 1976,  quando i protagonisti sono ancora bambini e qui la narrazione si trasforma in prima persona. Pietro è  lui a raccontarci  cosa è successo alla sua infanzia, a quella del fratello e lo fa con una  chiarezza ed una lucidità impressionanti.
Ho amato questa scelta narrativa grazie alla quale le due storie hanno vita propria viaggiando in parallelo fino all'epilogo.

La crudezza della narrazione mi ha fatto, in alcuni momenti, chiudere il libro come forma di protezione,  anche solo toccarlo avrebbe tinto di nero le mie mani. Staccarmi disgustata. Poi dopo la pausa la  morsa dell'orrore ha allentato la sua stretta e la curiosità perniciosa mi ha trascinato nelle pagine: dovevo sapere, dovevo scoprire. 
Sangue marcio  ha avuto lo stesso effetto di Ossigeno di  Sacha Naspini, lo stesso mio rigurgito verso il male ma ne consiglio la lettura per cogliere la bravura dell'autore in questo breve, intenso, nero racconto e se non avrete le mie stese pause lo leggerete in un un batter di ciglia anche se poi vi rimarrà incollata addosso per molto più tempo. 

Buona lettura e non lettura a tutti. 

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